Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (13 page)

Intanto, poiché ero fin troppo sicura del fatto, vivevo consapevolmente in pieno incesto e fornicazione, con tutta l’apparenza della moglie per bene. E benché di ciò non mi impressionasse troppo la natura delittuosa, tuttavia l’atto aveva in sé qualcosa che ripugnava all’istinto e mi dava persino un senso di nausea per mio marito, poiché lui credeva d’essere questo per me.

Comunque, dopo ponderata riflessione, decisi che era assolutamente necessario tener nascosto tutto e non fare la minima rivelazione né alla madre né al marito. Vissi così nella peggiore sciagura immaginabile per altri tre anni, ma non ebbi altri figli.

Durante quel tempo mia madre aveva l’abitudine di farmi spesso altri racconti delle sue avventure di prima, e questo però non era piacevole per me. Infatti, da quello, benché lei non me lo dicesse in parole chiare, potevo facilmente comprendere, unendo quel che avevo sentito dire io dai miei primi tutori, che lei in gioventù aveva fatto sia la puttana che la ladra; onestamente ammetto però che era vissuta tanto da pentirsi di tutte e due le cose e che era allora una donna molto pia, per bene e religiosa.

Bene, qualunque vita avesse fatto lei, certo è che io stavo facendo una vita poco piacevole. Vivevo infatti, come ho detto, nel tipo peggiore di fornicazione, e poiché non potevo attendermi nulla di buono, in realtà nulla di buono ne venne fuori, e la mia prosperità apparente crollò, e finì con miseria e rovina. Passò in verità del tempo prima che si giungesse a questo, perché, per forza di non so che destino, tutto andò male per noi, da quel momento, e, quel che fu peggio, mio marito diventò stranamente diverso, intrattabile, geloso e sgarbato, e nemmeno io riuscivo a tollerare i suoi modi, perché erano modi irragionevoli e ingiusti. Le cose giunsero a tal punto, e alla fine arrivammo ad essere in tali rapporti fra noi, che io mi richiamai a una promessa che lui mi aveva fatto senza difficoltà quando io avevo accettato di partire con lui dall’Inghilterra, e cioè che se non avessi trovato il paese di mio gradimento o non mi fosse piaciuto viverci avrei potuto tornarmene in Inghilterra a mio piacere, dandogli un anno di preavviso per sistemare i suoi affari.

Mi richiamai, così, a quella promessa, e devo confessare che non lo feci nel modo più deferente che si possa immaginare al mondo; ma insistetti sul fatto che lui mi trattava male, che io ero lontana dai miei amici e non potevo farmi dar ragione da nessuno; lui era geloso senza motivo, la mia vita mondana era stata irreprensibile, lui non aveva il minimo pretesto, e io, andandomene in Inghilterra, gliene avrei tolto anche l’occasione.

Insistetti in modo tanto categorico che lui non poté evitare di venire al punto, stare o mancare alla parola che mi aveva data; ciò pur essendo ricorso a tutta l’abilità di cui era maestro e pur essendosi servito della madre e di altri intermediari per costringermi a mutare la mia decisione; in realtà, la ragione vera era sepolta in fondo al mio cuore, e ciò rendeva vano ogni suo sforzo, perché lui non potevo più averlo nel cuore come marito. Mi disgustava l’idea di andare a letto con lui e mi servivo di ogni pretesto di malattia o di umore per impedirgli di toccarmi, perché nulla temevo più che fare un altro figlio con lui, cosa che poteva impedire, o perlomeno ritardare, la mia partenza per l’Inghilterra.

Comunque, lo feci diventare alla fine di un umore tale che lui prese una decisione drastica e grave: che io, cioè, non andassi in Inghilterra. Anche se me l’aveva promesso, era però irragionevole da parte mia pretenderlo; sarebbe stato disastroso per i suoi affari, avrebbe scardinato la famiglia, perduto lui agli occhi del mondo; non potevo perciò volerlo da lui, e nessuna moglie al mondo, se teneva in conto la propria famiglia e il bene del marito, poteva insistere su una cosa simile.

Questo mi bloccò di nuovo, perché, se consideravo la cosa con calma, e prendevo mio marito per quel che in realtà era, un uomo intento con la massima diligenza all’unica opera di accumular un patrimonio per i suoi figli, ignaro affatto della situazione in cui si trovava, non potevo fare a meno di confessare a me stessa che la mia richiesta era irragionevole, e che nessuna moglie che avesse a cuore il bene della sua famiglia poteva volerlo. Ma il mio scontento era d’altra natura. Io non vedevo più in lui il marito, ma il parente stretto, il figlio di mia madre, e decisi che in un modo o in un altro gli avrei parlato chiaro, ma come non sapevo, non mi sembrava possibile.

Dicono tutti i maligni del mondo, parlando del nostro sesso, che quando ci fissiamo su una cosa è impossibile farci tornare sulle nostre decisioni. Insomma, io non cessai di cercare il mezzo per giungere a fare il mio viaggio, e arrivai infine con mio marito al punto da chiedergli di partire io senza di lui. Questo lo provocò oltre ogni limite, e lui mi chiamò non solo moglie ingrata ma anche madre snaturata e mi chiese come potevo senza inorridire accettare idee simili, come quella di abbandonare i miei due figli (uno, infatti, era morto) senza madre, lasciarli crescere da estranei e non vederli mai più. Era vero, fossero state regolari le cose io non avrei dovuto farlo, ma ora il mio vero desiderio era di non vedere né loro né lui, mai più. E quanto all’accusa di essere una madre snaturata, io sì che avrei potuto dare una risposta, io che sapevo quanto quella parentela fosse la cosa più contro natura al mondo.

Comunque, era chiaro che non v’era modo di convincere mio marito a nulla. Non voleva partire con me e non voleva lasciarmi partire senza di lui, e io non avevo nessun diritto di spostarmi senza il suo consenso, come sa molto bene chiunque conosca le leggi del paese dove noi ci trovavamo.

Avemmo per questo molti liti in famiglia, che presto presero a salire verso vette pericolose; io mi sentivo infatti completamente estranea, dal punto di vista affettivo, al mio cosiddetto marito e non sentivo perciò il bisogno di tirar le redini a quel che dicevo, e spesso usavo con lui un linguaggio provocatorio. Tentavo, insomma tutto quel che potevo per indurlo a separarsi da me, che era la cosa che desideravo di più al mondo.

Lui prese molto male quel mio modo di fare, e in verità ne aveva buoni motivi, perché alla fine io mi rifiutai di andare a letto con lui; e siccome tiravo al massimo la corda in ogni occasione, lui mi disse una volta che ero pazza e che se non cambiavo condotta lui mi avrebbe fatta curare; vale a dire, mi avrebbe messa in manicomio. Io gli dissi che si sarebbe accorto che io ero tutt’altro che pazza, e che né lui né altri farabutti sarebbero riusciti ad assassinarmi. Confesso che ero al contempo spaventata a morte dalla sua idea di mettermi in manicomio, perché mi sarebbe venuta meno d’un tratto qualsiasi possibilità di svelare la verità al momento opportuno, visto che allora nessuno avrebbe più creduto a una mia sola parola.

Ciò mi condusse quindi a prendere una decisione per mettere in chiaro tutta la faccenda, e andasse come doveva andare. Ma come farlo, a chi parlare, erano cose che costituivano una difficoltà inestricabile, e mi ci vollero molti mesi per venirne a capo.

Nel frattempo ci fu un’altra lite con mio marito, e si arrivò a tali estremi pazzeschi che io mi trovai quasi forzata a dirgli tutto in faccia; ma, anche se mi trattenni dallo scendere a particolari, dissi però tante cose e misi lui così in allarme che, alla fine, tutta la storia venne a galla.

Lui aveva cominciato con calma, criticando il fatto che io ero tanto decisa a partire per l’Inghilterra. Io difesi la mia decisione, e poiché, come succede in ogni lite di famiglia, una parola tira l’altra, lui mi disse che io lo trattavo come se non fosse mio marito, e trattavo i miei figli come se non fossi la loro madre; non meritavo, insomma, di essere considerata una moglie; lui aveva usato con me ogni mezzo possibile; aveva discusso con tutta la bontà e la calma che un buon cristiano di marito deve usare, e io l’avevo contraccambiato in modo così volgare che pareva avessi a che fare non con un uomo, ma con un cane, o col più spregevole degli estranei invece che con un marito; lui, disse, non poteva soffrire l’idea di ricorrere alla violenza contro di me, ma ormai ne comprendeva la necessità e da quel momento in poi si sarebbe visto costretto a prendere provvedimenti, in modo da ricondurmi alla ragione.

Il sangue mi bollì allora più che mai, anche se capivo che aveva detto cose vere, e appropriatissime al caso. Gli dissi che i suoi bei modi e le sue porcherie mi facevano solo schifo; d’andare in Inghilterra ero decisa, capitasse quel che doveva; e se non trattavo lui come un marito e non mi dimostravo una madre coi miei figli, poteva esserci sotto qualcosa di più di quel che lui sapeva; ma, perché ci pensasse su meglio, una cosa avevo voglia di dirgli: che lui non era mai stato legalmente mio marito, né erano legittimi i miei figli, e io avevo le mie ragioni per trattarli come li trattavo.

Confesso che mentre gli parlavo mi fece pietà, perché diventò pallido come un morto e restò muto come uno colpito dal fulmine, e un paio di volte pensai che stesse per svenire; insomma, gli feci quasi venire un colpo apoplettico; tremava, il volto tutto madido di sudore, era freddo come il marmo, e io fui costretta a correre a prendere qualcosa per tenerlo in vita. Quando si riprese, si sentì male e vomitò, e lo si dovette metter subito a letto, e il mattino dopo aveva la febbre altissima, che gli durava dall’intera notte.

Passò, comunque. Lui si riprese, benché lentamente, e quando stette un po’ meglio mi disse che gli avevo inferto con le mie parole una ferita mortale e aveva una sola cosa da domandarmi prima di pretendere una spiegazione. Io lo interruppi, dissi che mi dispiaceva d’essermi spinta tanto in là, ma volevo che non mi parlasse di spiegazioni, perché sarebbe stato peggio.

Questo aumentò la sua impazienza e, in verità, lo turbò più di quanto fosse in grado di sopportare; ora, infatti, incominciava a sospettare che c’era qualche segreto nascosto, ma non riusciva nemmeno ad avvicinarsi con l’immaginazione alla sua reale natura; tutto quel che gli passava per il cervello era che io avessi un altro marito vivente, cosa che peraltro io non potevo negare che rispondesse a verità, e tuttavia gli assicurai che non v’era nulla di simile; in realtà, l’altro mio marito era effettivamente morto per me, legalmente, mi aveva detto lui di tenerlo per morto, e io da quel punto di vista ero perfettamente a posto.

Ma trovai che ormai le cose erano andate troppo oltre per tenergli ancora celati i fatti e fu mio marito stesso a darmi l’occasione di disfarmi del mio segreto, con mio grande sollievo. S’era accanito con me per tre o quattro settimane senz’altro scopo se non che io gli dicessi se avevo pronunciato quelle parole per un semplice impeto di collera, in modo da far andare in collera lui, o se invece c’era sotto qualcosa di vero. Ma io restai inflessibile e non volli spiegargli nulla, a meno che lui mi desse il consenso a partire per l’Inghilterra; consenso che lui mai mi avrebbe dato, disse lui, finché avesse avuto vita. D’altra parte, io gli dissi che era in mio potere far sì, quando mi piaceva, che fosse lui a volere la mia partenza, addirittura a scongiurarmi di andarmene; questo aumentò la sua curiosità e lo fece agitare oltre ogni limite, ma non servì a nulla.

Alla fine lui racconta la storia alla madre, e me la mette addosso per farmi dire il gran segreto, e lei per la verità si servì di tutta la sua bravura; ma io riuscii subito a bloccarla dicendole che il motivo e il mistero di tutta la faccenda dipendevano da lei, e che io per riguardo a lei avevo tenuto il segreto; e la scongiurai di non insistere.

Lei restò colpita da quell’accenno e ammutolì, non seppe più che dire né che pensare; ma, accantonando il sospetto che fosse quella una mia astuzia, continuò la sua perorazione per il figlio e per ottenere, se era possibile, che si sanasse la rottura fra noi. Io le dissi che quella sua era una bellissima idea ma non si poteva realizzare; e se io le dicevo la verità su quel che lei voleva, sarebbe stata lei la prima ad ammettere che non era possibile, e a smettere di volerlo. Alla fine mostrai d’essere vinta dalle sue insistenze e le dissi che mi azzardavo a confidarle un segreto della più grande importanza, e lei avrebbe immediatamente capito che lo era; io acconsentivo a riversarlo in seno a lei, purché lei solennemente s’impegnasse a non informare il figlio senza il mio consenso.

A promettere questo esitò un po’ ma, per non essere esclusa dal segreto principale, alla fine promise. Io, dopo un monte di preamboli, cominciai a raccontarle tutta la storia. Per prima cosa le dissi in che misura era stata lei a provocare tutto il doloroso contrasto tra suo figlio e me, col rivelarmi la sua storia e il suo nome di Londra; quando mi aveva vista tanto sbalordita, ecco qual era il motivo. Poi le dissi la storia e il mio nome, e le assicurai, con altre prove irrefutabili per lei, che io altri non ero, né più né meno, che la sua creatura, figlia sua, partorita da lei nel carcere di Newgate: quella stessa che col fatto di starle in pancia aveva salvato la vita a lei, e che lei invece, al momento d’esser deportata, affidò nelle mani dei taldeitali.

Non è facile dire in che sbalordimento cadde; non voleva nemmeno credermi, né ricordare i particolari, perché immediatamente vide davanti a sé lo sconvolgimento che da ciò doveva seguire in famiglia. Ma tutto concordava così esattamente con le storie che lei mi aveva narrato di sé, e che, non me le avesse raccontate lei, sarebbe stata magari capacissima di negare, che alla fine lei non trovò altro da dire, né altro da fare, se non gettarmi le braccia al collo, baciarmi, scoppiare in pianto dirotto, e per un po’ non ci dicemmo nulla. Finalmente incominciò: “Infelice creatura!” dice, “quale sorte sciagurata ti ha condotto fin qua? E addirittura fra le braccia di mio figlio! Ragazza spaventevole,” dice, “ecco che siamo perduti tutti! Maritata con tuo fratello! Tre figli, e due viventi, dello stesso sangue e della stessa carne! Mio figlio e mia figlia che si coricano insieme come marito e moglie! Tutto sconvolto e distrutto per sempre! Sciagurata famiglia! Che sarà di noi? Che cosa possiamo dire? Che cosa possiamo fare?” E così continuò per un pezzo, né io riuscivo a parlare, perché, ci fossi anche riuscita, non avrei saputo che dire, ogni parola mi feriva profondamente il cuore. Con tale sbigottimento nella mente ci separammo per quella volta, e mia madre era più sbalordita di me, perché la novità era più per lei che per me. Lasciandomi, tuttavia, mi promise di nuovo di non dir nulla al figlio finché non ne avremmo parlato un’altra volta.

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