Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (38 page)

Le signore si spostarono tutte di corsa sul lato del viale, e io aiutai la mia signorinetta a salire sullo steccato di fianco al viale, perché fosse in alto abbastanza da poter vedere; e presi la piccola e alzai bene in alto anche lei; intanto, mi preoccupai di allontanare da Lady Betty l’orologio d’oro tanto elegantemente, che lei non sentì nulla, non s’accorse che le mancava finché tutta la folla non fu passata, e lei non si ritrovò in mezzo al viale con le altre signore.

Stretta in mezzo alla folla io presi congedo, e dissi affannosamente, come se mi mancasse il tempo: “Cara Lady Betty, badate alla sorellina.” E fu così come se fosse la folla a staccarmi da lei, e io dovessi malvolentieri congedarmi.

La confusione in quei casi finisce subito, e il luogo torna tranquillo appena il re è passato; ma, siccome c’è sempre corsa e baccano quando passa il re, io, mollate le due signorinette, e fatto il mio mestiere con loro senza inconvenienti, continuai a correre in mezzo alla folla, come se volessi andare a vedere il re, e arrivai così in prima fila davanti alla folla e vi restai finché giunsi alla fine del viale, dove, mentre passava il re in mezzo ai corazzieri, mi infilai in un passaggio che portava in Haymarket, e lì mi procurai una carrozza, e me la squagliai; e confesso di non aver più mantenuto la mia parola, di andare cioè a far visita a Lady Betty.

Per un momento mi era passato per la mente di fermarmi con Lady Betty finché lei si fosse accorta che le mancava l’orologio, e piantare un pandemonio insieme con lei, farla salire in carrozza e montare anch’io in carrozza con lei; sembrava infatti così conquistata da me, e ingannata dal mio discorrere con tale disinvoltura di tutte le sue conoscenze e della sua famiglia, che a me non pareva troppo difficile forzare un po’ la cosa, riuscendo magari a prendermi la collana di perle; ma quando riflettei che, se pure non mi sospettava la ragazza, potevano essere altri a farlo, e che se mi perquisivano mi scoprivano, pensai che era la cosa migliore battermela con quel che avevo preso, e star contenta.

Venni per caso a sapere in seguito che quando la signorinetta s’era accorta che le mancava l’orologio aveva piantato un pandemonio nel parco e aveva mandato il paggio da tutte le parti a cercare me, dopo avermi descritto così perfettamente che tutti avevano capito subito che si trattava della stessa persona che s’era fermata a parlare tanto a lungo col paggio e che gli aveva fatto tante domande su tutti loro; ma io ero già abbastanza fuor di portata loro, prima che lei arrivasse a raccontar la storia al paggio.

Dopo questa, ebbi un’altra avventura, di carattere diverso da tutte quelle che avevo avute fino a quel momento, e fu in una casa da gioco nei pressi del Covent Garden.

Vidi molta gente entrare e uscire; mi fermai parecchio tempo sull’ingresso, in compagnia di un’altra donna, e, visto entrare un gentiluomo che aveva un’aria un po’ più su del comune, gli dissi: “Per piacere signore, lasciano entrare anche le donne?”

“Sì, signora,” dice lui, “e anche giocare, se gli va.”

“A me va,” dico io. Al che quello disse che mi presentava lui, se io facevo sul serio; io lo seguii perciò oltre la porta e lui, data un’occhiata all’interno, disse: “Eccoli là, signora, i giocatori, se vi va di rischiare.”

Io guardai dentro e dissi forte alla mia collega: “Ci sono soltanto uomini; non me la sento di correre il rischio.”

Al che uno di quelli gridò: “Non dovete aver paura, signora, qui ci sono soltanto giocatori onesti; siete la benvenuta se volete entrare e accomodarvi come vi piace.” Così io mi avvicinai un poco ad osservare, e qualcuno mi portò una sedia, e io mi sedetti a vedere il bossolo e i dadi che giravano intorno; dissi allora alla mia collega: “I signori giocano troppo forte per noi; vieni, andiamo via.”

La gente era tutta molto per bene e un gentiluomo specialmente mi incoraggiò dicendo: “Venite, signora, se ve la sentite di rischiare; se vi fidate di me, garantisco io che qui non vi sarà fatto nessun torto.”

“No signore,” dissi io sorridendo, “spero che i signori non vorranno imbrogliare una donna.” Però mi rifiutai ancora di giocare, anche se tirai fuori una borsa con del denaro dentro perché potessero vedere che non avevo bisogno di soldi.

Ero seduta lì da un po’ di tempo, quando un gentiluomo scherzando, mi disse: “Su, signora, vedo che avete paura di rischiare per vostro conto; io ho sempre avuto fortuna con le signore, voi punterete per me, se per voi non volete farlo.”

Dissi io: “Sir, mi dispiacerebbe molto perdere il vostro denaro,” e aggiunsi però: “Anch’io sono abbastanza fortunata; ma i signori giocano così forte, che in verità non mi sento di rischiare del mio.”

“Bene, bene,” dice lui, “ecco dieci ghinee, signora; puntatele per me.” Così io presi quel denaro e lo puntai, con lui che stava a guardare. Persi nove di quelle ghinee, una o due per volta, poi il banco passò al giocatore vicino a me, e il mio gentiluomo mi dette ancora altre dieci ghinee, e me ne fece puntar cinque in una volta sola, e il signore che teneva il banco sbancò, e così a lui restarono in mano cinque ghinee. Lui fu incoraggiato da questo, e volle che prendessi il banco, che era un bel rischio. Io tenni comunque il banco tanto a lungo da rivincere tutti i suoi soldi, e avevo in grembo una bella manciata di ghinee, e il colmo della fortuna fu che quando sbancai dovetti pagare solo un paio di giocatori che mi avevano puntato contro, e così me la cavai brillantemente.

Arrivata a questo punto, porsi al gentiluomo tutto l’oro, che era suo; e, fingendo di non conoscere abbastanza bene il gioco, gli dissi di giocare per conto suo. Lui rise e disse che, purché fossi fortunata, non contava niente se conoscevo il gioco o no, non dovevo smettere. Comunque, riprese le quindici ghinee che aveva messo all’inizio, e mi disse di giocare con il resto. Io avrei voluto fargli contare quello che avevo vinto, ma lui disse: “No, no, non contateli, mi fido della vostra onestà, e contarli porta sfortuna.” E così io continuai a giocare.

Conoscevo abbastanza bene il gioco, anche se fingevo di no, e giocavo con molta prudenza. Si trattava di tenermi in grembo un bel mucchio, dal quale di quando in quando mi infilavo qualcosa in tasca, ma in modo tale, e nei momenti così opportuni, che ero certa che lui non se ne accorgeva.

Giocai per parecchio tempo, ed ebbi ottimo gioco per lui; ma l’ultima volta che tenni banco, mi puntarono fortissimo, e io audacemente sbancai tutti; tenni il banco finché vinsi quasi ottanta ghinee, ma ne persi quasi la metà nell’ultima mano; perciò lasciai, perché avevo paura di riperdere tutto e dissi a quello: “Ve ne prego, signore, adesso mettetevi a giocare voi; mi pare di avere fatto per voi già abbastanza.” Lui avrebbe voluto farmi giocare ancora, ma si faceva tardi, e io chiesi licenza. Quando gli consegnai tutto, gli dissi che speravo mi avrebbe dato ora il permesso di contarle, per vedere quanto avevo vinto, e che fortuna gli avevo portato; le contai, ed erano sessantatrè ghinee. “Oh,” dico, “non fosse stato per quel colpo andato male, vi avrei messo insieme un centinaio di ghinee.” Gli detti così tutto il denaro, ma lui non voleva accettarlo prima che io vi mettessi mano prendendo quel che mi pareva, mi disse di servirmi. Io rifiutai, assolutamente non volli prender nulla io; se quella era la sua intenzione, doveva esser lui a farlo con le mani sue.

Gli altri signori, vedendoci contendere, gridarono: “Daglieli tutti!” Ma io dissi assolutamente di no. Allora uno disse: “Al diavolo, Jack, fai a metà con lei; lo sai che bisogna sempre trattar bene le signore.” Così, a farla breve, lui divise con me, e io mi portai via trenta ghinee, più altre quarantatrè che avevo rubato di nascosto, del che in fondo mi dispiacque, visto che lui era tanto generoso.

Così portai a casa sessantatrè ghinee, e mostrai alla mia governante che fortuna avevo al gioco. Il suo consiglio fu però che io non m’arrischiassi più, e io seguii quella raccomandazione, tanto che non tornai mai più in quel luogo; capivo benissimo, infatti, che se prendevo il vizio del gioco, potevo in breve tempo tornare a perdere tutto quello, più tutto il resto che possedevo.

La fortuna mi aveva arriso a tal punto, e io m’ero talmente arricchita, e la mia governante pure, perché sempre aveva da me la sua parte, che seriamente la vecchia signora incominciò a parlare di fermarci dov’eravamo arrivate, e accontentarci di quel che avevamo; ma io non so che destino mi spingesse, certo è che adesso ero io che non volevo, così come non aveva voluto lei quando ero stata io a pensare di smettere, e così in un attimo sciagurato mettemmo da parte per il momento quell’idea, e, in poche parole, io divenni ancora più dura, ancora più temeraria, e i successi che ebbi resero famoso il mio nome più di quello di qualsiasi altra ladra del mio stampo che fosse stata a Newgate e all’Old Bailey.

M’ero presa qualche volta la libertà di ripetere lo stesso trucco, cosa che è contraria alle regole e che tuttavia non mi andò storta; ma, in genere, inventavo sempre nuovi trucchi, e cercavo di mostrarmi con un’apparenza diversa ogni volta che uscivo a battere la strada.

Eravamo adesso nella stagione della villeggiatura, e, siccome la gran parte dei signori era fuori città, Tunbridge, Epsom e simili luoghi erano pieni di gente. Ma la città era smagrita, e m’accorsi che anche il mestiere nostro, come tutti gli altri, ne risentiva; perciò, verso la fine dell’anno, mi unii a una banda che aveva l’abitudine di andare ogni anno alla fiera di Stourbridge, e di là alla fiera di Bury, nel Suffolk. Ci ripromettevamo là grandi cose, ma io, appena vidi di che si trattava, me ne stancai subito; infatti, al di fuori del borseggio semplice, c’era ben poco che valesse la pena di combinare; e, fatto un colpo, non era così facile portar via la roba, e mancava l’assortimento di occasioni per il mestiere che c’era invece da noi, a Londra; tutto quanto riuscii a cavare da quel viaggio fu un orologio d’oro alla fiera di Bury, e un pacco di lino a Cambridge, che mi fornì l’occasione per lasciare quel luogo. Usai un trucco vecchio, che giudicai potesse funzionare con un bottegaio di provincia, anche se a Londra non avrebbe funzionato di certo.

Comprai nel negozio di un mercante di tessuti, non alla fiera ma nella città di Cambridge, una certa quantità di tela d’Olanda fine e altra roba per un totale di circa sette sterline; ciò fatto, dissi di portarmela alla tale locanda, dove di proposito avevo preso alloggio quella mattina, come se avessi intenzione di fermarmi fino al giorno dopo.

Comandai al mercante di mandarmi la roba a una certa ora, alla locanda dove stavo, e gli avrei pagato il conto. All’ora stabilita il mercante mandò la roba, e io piazzai sulla porta della camera una della banda, e quando la cameriera del locandiere condusse alla porta il messaggero, che era un giovinetto apprendista, quasi un omino, quella gli dice che la sua padrona stava dormendo, ma se lui lasciava lì la roba e ripassava tra un’ora, io sarei stata allora sveglia e lui avrebbe ritirato i soldi. Lui lasciò subito il pacco e se ne andò, e nel giro di una mezz’ora la cameriera e io ce l’eravamo già squagliata, e la sera stessa presi a nolo un cavallo, con un uomo che mi montasse davanti, e andai a Newmarket, e di lì presi posto in una diligenza che non era ancora piena fino a St. Edmund’s Bury, dove, come vi ho detto, non riuscii a combinare gran che, riuscii soltanto in un teatrino di provincia a scippare l’orologio d’oro dal fianco di una signora che non soltanto era insopportabilmente allegra, ma anche, mi sembrò, piuttosto ubriaca, il che rese molto più facile il lavoro.

Con quel modesto bottino mi recai a Ipswich, e di lì a Harwich, dove scesi ad una locanda, fingendo d’essere appena arrivata dall’Olanda, sicura che qualche affare l’avrei fatto tra i forestieri che sbarcavano lì; ma mi accorsi che in genere non portavano nulla di valore, se non nei portamantelli e nei panieri di foggia olandese che erano custoditi dai paggi; riuscii tuttavia una sera a portar via bellamente un portamantello addirittura dalla camera di un gentiluomo, mentre il suo paggio era a letto, immerso in un sonno profondo e credo molto ubriaco.

La stanza che avevo io era vicina a quella dell’olandese, e dopo aver trascinato con gran fatica quella pesantissima cosa in camera mia, uscii in strada, per vedere se trovavo il modo di portarla via. Passeggiai per parecchio tempo, ma non riuscii a vedere nessuna maniera di portar fuori quell’oggetto, né di portar via la roba che c’era dentro dopo averlo aperto, perché il paese era molto piccolo, e io ero assolutamente forestiera; perciò me ne stavo per tornare, decisa a riportarlo e a lasciarlo dove l’avevo trovato. Proprio in quel momento sentii un uomo dare la voce a certa gente, per fargli fretta, dicendo che la barca stava per levar l’ancora, perché calava la marea. Io chiamai quel tizio.

“Che barca è la vostra, amico?” dico.

“Il traghetto di Ipswich, signora,” dice lui.

“Quando levate l’ancora?” dico io.

“Adesso, signora,” dice lui, “volete andar lì?”

“Sì,” dico io, “se faccio a tempo a prendere la mia roba.”

“Dov’è la vostra roba, signora?” dice.

“Alla tal locanda,” io dico.

“Bene, verrò io con voi,” dice lui molto cortesemente, “e ve la porterò io.”

“Venite, allora,” io dico, e lo conduco con me.

La gente della locanda era occupatissima, perché erano appena arrivati il postale dall’Olanda e due diligenze di passeggeri da Londra, diretti a un altro postale che salpava per l’Olanda, e le diligenze dovevano ripartire già il giorno dopo con i passeggeri che erano appena sbarcati. In quella confusione nessuno badò al fatto che io mi presentai al banco a pagare il mio conto, dicendo alla padrona che avevo trovato il posto sul traghetto.

Questi traghetti sono barche molto grandi, con una buona sistemazione per portare i passeggeri da Harwich a Londra; e benché li chiamino traghetti, termine che sul Tamigi si usa per definire una piccola barca a remi per una o due persone, questi sono invece battelli capaci di portare venti passeggeri e dieci o quindici tonnellate di merce, fatti per tenere il mare. Tutto ciò l’avevo saputo la sera prima, informandomi circa i possibili modi di andare a Londra.

La padrona della locanda fu molto gentile, prese i denari del conto, ma fu chiamata via, perché regnava la confusione in tutta la casa. Perciò la lasciai, condussi quel tizio in camera mia, gli consegnai il baule, o portamantello, perché era quasi un bauletto, l’avvolsi in un vecchio grembiule, e lui se ne andò diretto con quello alla barca, e io dietro a lui, senza che nessuno ci facesse la minima domanda; quanto al paggio olandese ubriaco, era ancora addormentato, e il suo padrone stava cenando di sotto con un altro forestiero, ed erano tanto allegri, sicché io me la filai tranquillamente verso Ipswich; e siccome era sera, alla locanda non sapevano altro se non che avevo preso il traghetto di Harwich, come avevo detto io alla padrona.

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