Read Moll Flanders (Collins Classics) Online

Authors: Daniel Defoe

Tags: #Fiction, #Classics

Moll Flanders (Collins Classics) (66 page)

Vedendo che non c’era nel negozio nessuno, dissi, avevo picchiato forte col piede in terra per farmi sentire dalla gente, ed avevo anche chiamato a voce alta; era vero che c’era in bottega dell’argenteria sparsa in giro, ma nessuno poteva dire che io l’avessi toccata, nemmeno che mi fossi avvicinata; quel tizio era entrato di corsa in bottega dalla via, e mi aveva messo le mani addosso in maniera brutale, proprio mentre io stavo chiamando la gente di casa; se avesse davvero voluto rendere un servigio al suo vicino, avrebbe dovuto fermarsi a una certa distanza, osservare in silenzio se toccavo qualcosa o no, e poi saltarmi addosso e cogliermi sul fatto. “Questo è verissimo,” dice il signor consigliere, e rivolto al tizio che mi aveva afferrata gli domandò se era vero che io avevo picchiato, in terra col piede. Quello disse che sì, avevo picchiato col piede, ma potevo averlo fatto perché avevo visto arrivare lui. “Eh, no,” dice il consigliere, interrompendolo, “adesso vi contraddite, perché avete appena detto che costei si trovava nella bottega volgendovi le spalle e non si accorse di voi finché non le foste addosso.” Ora, era vero che io volgevo quasi del tutto le spalle alla via, ma il mio mestiere era tale da esigere che io tenessi aperti gli occhi da ogni parte, e perciò io con la coda dell’occhio l’avevo visto arrivare, di corsa, come ho detto, anche se lui non se n’era accorto.

Dopo aver ascoltato tutto, il consigliere espresse il parere che il vicino s’era sbagliato e che io ero innocente, e l’orefice fu d’accordo, e la moglie anche, e così io fui lasciata libera; ma, mentre stavo per allontanarmi, il consigliere disse: “Un momento, signora, se avevate l’intenzione di comprare dei cucchiai, spero che non vorrete far perdere l’affare al nostro amico per causa del suo sbaglio.”

Io prontamente risposi: “No, signore, sono sempre pronta a comprare i cucchiai, se vanno bene col mio cucchiaio dispari, che ho portato come campione”; e l’orefice me ne mostrò allora alcuni che erano proprio della stessa forma. Pesò i cucchiai, e faceva trentacinque scellini; io per pagare tirai fuori la borsa, nella quale avevo quasi venti ghinee, perché non andavo mai fuori senza portare con me una tal somma, per qualsiasi evenienza, e mi fu utilissima sia in altre occasioni, sia in quella.

Quando il signor consigliere vide il mio denaro, disse: “Bene, signora, ora sono convinto che eravate stata accusata a torto, ed è stato per questo motivo che vi ho invitata a comprare i cucchiai, perché se non aveste avuto il denaro per pagarli, io avrei dovuto sospettare che foste entrata in questa bottega non con l’intenzione di comprare, perché per la verità la gente che nutre le intenzioni delle quali eravate stata accusata voi, ben di rado ha in tasca tant’oro quanto vedo che voi ne avete.”

Io sorrisi, e dissi a sua signoria che dunque una parte della sua benevolenza nei miei riguardi la dovevo al mio denaro, ma mi auguravo che lui avesse avuto buoni motivi anche per dare il parere che aveva dato prima. Lui disse di sì, li aveva avuti di certo, ma ora s’era confermato nella propria opinione, ed era assolutamente convinto che mi era stato fatto un torto. Così io me ne venni via a vele spiegate, anche se in quell’avventura ero giunta a un pelo dal disastro.

Passarono soltanto tre giorni, e io, secondo il mio solito, per nulla resa più cauta dal rischio appena corso, e seguitando nell’arte cui da tanto tempo mi ero dedicata, mi avventurai in una casa dove trovai le porte aperte, e mi impadronii, sicurissima di non essere stata notata, di due pezze di seta a fiorami, quella che chiamano broccato, molto di lusso. Non era una bottega di merciaio, né un magazzino, ma aveva l’aria dell’abitazione privata di un mercante, e ci stava, a quel che pareva, un tale che vendeva ai merciai articoli per tessitori, insomma un grossista o un fabbricante.

E facciamola breve con quella parte nera della storia, fui aggredita da due fanciulle che si buttarono addosso a me gridando a squarciagola proprio mentre uscivo dalla porta, e una mi ributtò nella stanza mentre l’altra mi chiudeva la porta. Ebbi un bel parlare, ma non serviva a niente, due draghi feroci non avrebbero potuto essere più furiosi di quelle due; mi stracciarono i panni, strapazzandomi e abbaiando come se volessero ammazzarmi; poi arrivò la padrona di casa e poi il padrone, tutti indignatissimi specie al primo momento.

Cercai di contarla al padrone, gli dissi che la porta era aperta e che quella roba era una tentazione per me, ero povera e sventurata, e alla povertà non tutti sanno resistere, e lo supplicai con le lacrime agli occhi di avere pietà di me. La padrona di casa si mosse a compassione, era dell’idea di lasciarmi andare, ed era quasi riuscita a convincere il marito, ma le due svergognate ragazze erano già corse, prima ancora che ce le mandassero, a chiamare un gendarme, e il padrone allora disse che non poteva più tirarsi indietro, io dovevo andare davanti al giudice, e rispose alla moglie che poteva passare lui un guaio se mi lasciava andare.

La vista del gendarme, in verità, mi riempì di terrore, e mi sembrò di sprofondare sotto terra. Caddi in convulsioni, e quelli pensarono seriamente che stavo per morire, tanto che la donna di nuovo parlò in favore mio, e supplicò il marito, visto che non ci avevano rimesso nulla, di lasciarmi andare. Io offrii di pagargli le due pezze, qualunque fosse il valore, anche se non le avevo prese, e dissi che siccome lui la sua roba l’aveva, e in realtà nulla aveva perso, crudele sarebbe stato perseguitarmi mandandomi alla morte, e farmi pagare col sangue il puro tentativo di prenderle. Al gendarme feci notare che non avevo scassinato porte, non avevo portato via nulla; e quando arrivai davanti al giudice, e deposi che non avevo compiuto nessuno scasso per entrare e non avevo portato via niente, il giudice era propenso a rilasciarmi; ma poiché la prima delle due svergognate che mi avevano fermata dichiarò che io stavo uscendo con la roba, ma era stata lei a fermarmi e a ributtarmi indietro dalla soglia dov’ero, il giudice sulla base di questo fatto mi mandò dentro, e mi portarono a Newgate. Che luogo tremendo! Solo a farne il nome mi si gela il sangue; il luogo dove tanti colleghi miei erano stati rinchiusi e donde erano andati all’albero fatale; il luogo dove mia madre aveva tanto duramente sofferto, dove io ero venuta al mondo, e dal quale nessuna liberazione potevo attendermi se non per opera di una morte infame: per concludere, il luogo che da tanto tempo mi aspettava e che per tanto tempo avevo con l’arte e la fortuna scansato.

Adesso ero davvero sistemata; è impossibile descrivere il terrore dell’animo mio, appena mi misero dentro, quando mi vidi intorno tutti gli orrori di quel brutto luogo. Mi vedevo perduta, capivo che mi restava solo da pensare a lasciare il mondo, e per giunta nel modo più infamante: il chiasso infernale, le grida, le bestemmie, il frastuono, il puzzo e la sporcizia e tutta la folla spaventevole di esseri dolorosi che vidi colà, si univano facendo di quel luogo quasi un simbolo dell’inferno, oltre che la porta per entrarci.

Adesso mi rimproveravo perché, con tutti gli avvertimenti che, come ho già detto, la mia ragione, e la consapevolezza delle mie condizioni prospere, e dei tanti pericoli ai quali ero sfuggita, m’avevano dato, di smettere finché m’andava bene, io li avevo invece tutti respinti, e avevo fatto il callo alla paura. Mi pareva di essere stata spinta da un fato inevitabile e misterioso fino a quel giorno di sciagura, e adesso mi toccava espiare tutti i miei delitti sul patibolo; ora dovevo pagare col mio sangue il prezzo della giustizia, ero giunta all’ultima ora della mia vita e insieme della mia delinquenza. Tutto ciò mi occupava in maniera confusa la mente, e mi faceva sopraffare dalla tristezza e dalla disperazione.

Allora mi pentii di tutto cuore della mia vita passata, ma quel sentimento non mi dette né soddisfazione né pace, neanche un po’, perché, come dissi fra me, era un pentirsi quando ormai ogni possibilità di continuare a peccare mi era stata tolta. Era come se io mi dolessi non per avere commesso quei delitti, che erano un torto fatto a Dio e al mio prossimo, ma solo perché dovevo essere punita. La mia penitenza non era per i peccati commessi, ma per le sofferenze che mi attendevano, capii, e questo mi tolse ogni consolazione, privò persino l’animo mio della speranza del pentimento.

Non potei prender sonno per molte notti, e per molti giorni, dal momento in cui entrai in quel luogo sciagurato, e per qualche tempo m’avrebbe fatto piacere morire subito, anche se con ciò mostravo di non avere della morte l’idea che si dovrebbe; in verità, nulla più di quel luogo riusciva a colmare d’orrore la mia immaginazione, niente odiavo più della gente che vi si trovava. Oh, mi avessero mandata in qualunque altro posto del mondo, ma non a Newgate, ne sarei stata addirittura felice.

In secondo luogo, che trionfo ebbero su di me le sciagurate che c’erano da prima di me! Ma come? La signora Flanders arrivata finalmente a Newgate? Ma come? Proprio la signora Mary, la signora Molly, e poi, liscio liscio, Moll Flanders? Erano certe, dicevano, che era stato il diavolo ad aiutarmi, per farmi imperare tanto a lungo; erano tanti anni che mi aspettavano, ero arrivata finalmente? Poi si fecero beffe del mio avvilimento, mi dicevano benvenuta in quel posto, mi facevano gli auguri, mi raccomandavano di prenderla allegramente, di non buttarmi giù che le cose non eran poi brutte come le vedevo io, e così via, poi fecero portare del liquore, e bevvero alla mia salute, ma fecero pagare a me il conto, perché dissero che io ero appena arrivata in collegio, dicevano così, e di certo, a differenza di loro, avevo soldi in tasca.

Domandai a una della banda da quanto tempo si trovava lì dentro. Lei disse quattro mesi. Le chiesi che impressione le aveva fatto il luogo appena c’era entrata. “La stessa che fa a te,” disse quella, “terribile, spaventevole.” Disse che le pareva d’esser capitata all’inferno; “e mi pare ancora,” disse, “ma adesso è normale, non mi dà più fastidio.”

“Immagino,” dico io, “che non corri il rischio di quel che segue.”

“Anzi,” dice lei, “per questo ti sbagli, te l’assicuro, perché sono stata già condannata a morte, solo che ho fatto il ricorso di gravidanza, ma non sono più incinta del giudice che mi ha condannata, e mi aspetto d’essere richiamata alla prossima sessione.” Per “richiamo”, s’intende il richiamo in vigore della condanna precedente, quando una donna che è stata risparmiata perché ha fatto il ricorso di gravidanza non può provare di essere incinta, o, se lo era, ha già partorito.

“Ma,” dico io, “te la prendi così poco?”

“Certo,” dice lei, “non posso farci nulla; a che serve esser tristi? Se m’impiccano, sarà finita per me,” dice; e se ne va a passo di danza, cantando, mentre si allontana, l’esempio che segue di spirito stile Newgate:

Se dalla corda giù dondolerò

sentirò la campana far dindò.

E così sarà finita, per la povera Jenny.

Parlo di ciò perché mi pare che valga la pena di una riflessione da parte di ogni prigioniero, cui capitasse la medesima sventura di arrivare in quel luogo tremendo che è Newgate, e cioè che bastano il tempo, la necessità e la compagnia di quegli sciagurati a render familiare il luogo, e come alla fine si arrivi ad accettare tranquillamente ciò che costituiva prima il massimo terrore al mondo, e ci si mantenga svergognatamente allegri e contenti nella sciagura, come quando se ne era fuori.

Non mi sento di dire, come certi, che il diavolo non è così brutto come lo si dipinge; infatti non esistono al mondo i colori adatti per ritrarre fedelmente quel luogo, e non può farsene una vera idea nessuno che non vi abbia patito. Ma in qual modo l’inferno possa diventare a poco a poco tanto normale, e non solo sopportabile ma addirittura piacevole, è cosa che può capire solo chi, come me, l’ha provata.

La sera stessa del mio arrivo a Newgate mandai la notizia alla mia vecchia governante, che potete figurarvi come rimase, e passò fuori da Newgate una notte quasi uguale a quella che io passai dentro.

La mattina dopo venne a trovarmi; fece quel che poteva per consolarmi, ma capì che non serviva a niente; tuttavia, come lei diceva, piegarsi sotto il peso della sventura serve solo a farla pesare il doppio; subito lei si dette a cercare i modi adatti per prevenire le conseguenze da noi temute, e per prima cosa scovò le due feroci fanciulle che mi avevano pescata. Tentò di corromperle, di convincerle, offrì loro del denaro, in una parola fece tutto il possibile per cercar di evitare il seguito del procedimento; a una delle due ragazze offrì cento sterline se lasciava la padrona e non compariva come testimone contro di me, ma quella era tanto decisa che rifiutò, benché fosse una cameriera che prendeva una paga di tre sterline o pressappoco in un anno, e sarebbe stata capace di rifiutare, la governante s’accorse, anche se gliene avesse offerte cinquecento. La governante attaccò allora l’altra ragazza; questa non aveva l’aria d’esser dura di cuore come l’altra, e a volte pareva più misericordiosa; ma la prima ragazza non la mollò, le fece cambiare idea, non permise nemmeno che la mia governante continuasse a parlare con lei, anzi minacciò la governante di farla arrestare per tentativo di corruzione di testimoni.

Lei si rivolse allora al padrone, cioè all’uomo al quale era stata rubata la roba, e specialmente alla moglie, la donna che, come ho detto, era fin dall’inizio propensa a mostrare compassione per me; trovò la donna ancora dello stesso parere, ma l’uomo disse di dover rispondere al giudice che mi aveva messa dentro, disse di dover mantenere la sua deposizione.

La mia governante si offrì di trovare amici disposti a fare sparire dall’archivio, come si dice, la sua deposizione, senza che lui avesse nessun disturbo; ma non riuscì a convincerlo che si poteva fare, né che lui potesse starsene tranquillo senza comparire come testimone a mio carico; così mi trovavo ad avere tre testimoni contro, il padrone e le due cameriere; vale a dire, ero sicura d’essere sistemata per la vita quant’ero sicura d’esser viva, e non mi restava altro da fare che pensare a morire, e prepararmici. Non disponevo, come ho detto, che di fondamenta ben tristi sulle quali edificare, perché tutto il mio pentimento mi appariva soltanto il risultato della paura che avevo di morire, non un sincero rammarico per la vita di corruzione che avevo condotto, e che mi aveva gettato in tale sventura, né per il torto che avevo fatto al Creatore, che quanto prima sarebbe stato il mio giudice.

Vissi diversi giorni in uno stato di tremendo terrore dell’animo; mi vedevo, per così dire, la morte davanti, e giorno e notte non pensavo ad altro che a patiboli e corde, spiriti malvagi e demoni; non si può dire in parole quanto ero sconvolta, presa fra gli spaventevoli timori di morte, da una parte, e i tremendi rimproveri che la mia coscienza mi poneva per la mia sciagurata vita trascorsa, dall’altra.

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